08 febbraio 2021

Renzo Bassi, 1944

Renzo Bassi, nella sua legnaia a Frescada.
(Foto: 6.3.2021)

Intervista telefonica
, giovedì 24 dicembre 2020. File 20122401. (Contatto procurato dal prof. Ivano Tiveron)


Renzo Bassi, nato a Lughignano il 14 giugno 1944, si è trasferito fin da bambino a S. Floriano di S. Biagio Callalta, dove il padre Emilio (classe 1908) gestiva il casoín del paese e [per qualche anno] anche l’osteria con gioco di borèa.

Ha frequentato le scuole medie al Cavanis di Possagno, diplomandosi poi in ragioneria al Riccati di Treviso.

È stato direttore del Consorzio Agrario di Roncade (per una ventina d'anni), poi del Consorzio A. di Monastier (altri dieci anni), finendo la carriera come ispettore del Consorzio Agrario di Treviso e Belluno.

Attualmente abita a Frescada di Preganziol (TV).


[...]


01:03 A San Floriano la borella era proprio davanti al portoncino di casa e ci toccava mettere un pezzo di legno sennò le bae andavano addosso al portoncino; quindi ho bei ricordi della borèa, e le mie sorelle ancora di più, perché  - poverine - hanno preso tante di quelle botte perché non volevano andar butar su e bae! Perché mi allenavo, quando avevo voglia di giocare, e il problema era di rimandare indietro e bae. E le mie sorelle... una era  gemella, le dicevo "Cecilia, va butar su", e lei "mi no, eh!".

- Ha detto che è nato a Lughignano, prima che ci dimentichiamo, mi dica anche la data di nascita.

14 giugno 1944; era di mercoledì.

- Si ricorda proprio tutto!

02:12 Nella scalogna, ho avuto la fortuna di avere delle maestre di Treviso, sorelle Marchi, che erano sfollate da Treviso a casa nostra. Per quello mi ripetevano sempre “mercoledì”, perché dovendo partorire due gemelli, mia mamma è andata all’ospedale a Casier, dove era stato trasferito l’ospedale di Treviso.

- È nato in un periodo che peggio non poteva essere, sotto le bombe e con la guerra, coi partigiani, con la guerra civile e compagnia bella.

Vuole sapere cosa diceva mia mamma - mia mamma non era politicante, era tanto de césa [religiosa praticante], e basta - però diceva: “di giorno avevamo paura dei fascisti e di notte dei partigiani”… perché quelli che erano in montagna, poverini , tanto di capello...

- Invece, nelle zone nostre non si comportavano molto bene, i partigiani?

Eh, un po’ di tutto, cosa vuoi. Difatti, mia mamma - neutrale - per non far torto a nessuno, di giorno temeva gli uni e di notte gli altri.

03:34 - Lasciamo perdere questo discorso che sarebbe un discorso molto lungo e complicato

[R.B. ... spiega come in campagna, a Musestre, abbia comprato due-tre mila metri di terra dove ha costruito una casetta di legno].

Adesso ad esempio sono qua in campagna a Musestre, e sto raccogliendo uova. Finalmente, dopo un po’ di tempo, hanno iniziato a fare le uova, queste benedette galline… avevano fatto sciopero, no e voéva pí far vovo, ciò! Ho dovuto andare al Consorzio a prendere un poco di “nucleo” per scaldargli la vovèra [l'ovaio]; tutte cose che si imparano col tempo.

04:29 - Allora adesso la disturbo, vuole che la chiami più tardi?

No, anzi.

- Le tocca stare al freddo, nella casetta di legno.

Ho la stufa, per quello, ho la legna, ma adesso non l’accendo. Ieri sì l’ho accesa, perché  sono stato qua dentro per delle ore; oggi, quando ho finito di dare da mangiare alle galline, vado a casa, e dopo non mi muovo più fino a martedì.

- Mi diceva che abitava proprio vicino alla borella e che giocava.

Io e mio compare, che siamo nati quasi nello stesso giorno, io il 14 e lui l’8 giugno, avevamo iniziato con le bocce; poi io ho cominciato con la borella e ho trovato più soddisfazione, e infatti ho fatto baruffa con mio compare, perché non voleva giocare alla borella, lui voleva giocare alle bocce, ma a me piaceva di più la borella. Guarda che io a quindici anni sono andato in gara a Settecomuni [di Preganziol] dal cav. Schiavinato. Si ricorda del cav. Schiavinato che era segretario del Consorzio Agrario? Un grande personaggio […] con la storia della Coltivatori Diretti, il Consorzio Agrario in quegli anni là erano tuto un cul e na braga [la stessa cosa].

- Lo so, perché sono figlio di coltivatori diretti anch’io. […] Suo compare, come si chiamava?

 06:27 Lorenzo Susigan, che è diventato un grosso giocatore di bocce, e a fine carriera ha fatto l’arbitro nazionale e internazionale. […]

- Ho già parlato con Susigan.

Eh, è amico di Ivano [Tiveron], si sono frequentati parecchio tempo.

- Lei è compare di Susigan?

Eh ben sì, siamo nati e cresciuti insieme.[…]

- In poche parole a Renzo Susigan non piaceva tanto giocare alla borella, a differenza di lei.

07:32 No no, lui era proprio “matto per le bocce” e infatti ha fatto prima il giocatore e dopo l’arbitro.

- Invece a lei, perché piaceva di più giocare alla borella? .

Perché mi scaricava di più dal punto di vista del nervoso.

Infatti avevo imparato a remenàrla di sinistra [la baƚa] con la stessa mano, non cambiando mano; cioè remenàrla roversa. Di solito la reméni da destra verso sinistra invece io riuscivo — però mi ci voleva la baƚa piccola , perché quella grossa non sarei stato in grado di tenerla — [...] . Non è mica facile giocarla roversa, eh!

08:40 - Lei è ambidestro?

No, sempre con la stessa mano, non è che cambiassi la mano: io sono “destro” e con la mano destra riuscivo a remenàr la baƚa sia da destra a sinistra, sia da sinistra a destra.

- Ah, e come faceva?

Col polso: è gioco di polso.

- A quanto ho capito le bae della borèa hanno anche una pèca, una tàca da metterci il dito..

Sì, hanno la buséta, se è una baƚa grossa; se è una baƚa piccola non serve, la tieni bene. Ma se è una baƚa grossa, con la mano... dipende sempre anche dalla grandezza delle dita che uno ha, perché se ha le dita piccole… Deve stare “sul polso” la baƚa, e con le dita la lavori. A meno che non giochi “al volo”, ma non c’era quasi nessuno che giocava al volo, cercavi sempre di tirare la baƚa davanti al primo són in modo che se prendi il primo è facile che tu prenda anche il secondo. 

09:57 - Chi giocava al volo aveva più probabilità di far meglio?

No, anche perché è difficile … poteva anche prenderli tutti e tre i sóni, perché, prendendo il primo era facile che tu lo ingrumavi [lo addossassi, lo buttassi addosso] su per il secondo e per il terzo; però normalmente era baƚa al són. Mentre invece facendola saltare, la baƚa non arriva più per caduta, ma arriva in velocità e di conseguenza, prendendo il primo si alzava quasi sempre sul secondo, aveva più probabilità di saltare sul secondo e facevi ganbarèl.

- Però ci voleva questa abilità di remenàrla.

Eh sì, di darle la remenèa giusta.

- Già che mi parlava di grossezza delle bae, di che diametro erano, in linea di massima?

Sempre drio a man, in base alla grandezza della mano, perché sennò, come fai a "lavorarla"? Quindi potresti avere un diametro da 15 a 18 centimetri, ma anche 22 se hai un bel braccio… ma da 22 devi farti le bae appositamente...

11:23 Difatti i più bei giocatori venivano via con la baƚa da casa: se la curavano loro, se la gestivano … la buséta serviva per tenere il pollice, sempre sulle bae grosse, perché sono quelle che fanno gioco.

- Chi era quello che faceva e bae? C’era uno che aveva un tornio?

No, no, un po’ tutti i contadini … i contadini una volta erano in grado di fare tutti i mestieri, se le facevano loro in casa, quasi sempre in òpio: l’òpio è un bel legno, che lavori come vuoi.

- Il legno principale era l’òpio [acero campestre], insomma.

Penso di sì; non lo metterei per iscritto, ma dalle ciacoe, dai discorsi che sentivi…

12:20 - Ho sentito uno che mi diceva che le facevano con la radice dell’òpio, con la sóca dell’ópio. Può essere?

Sarebbe stato meglio, però quando hai levato la sóca hai rovinato la siepe!  Quindi, secondo me - vado dietro logica, non che abbia seguito queste robe - per prendere la parte meglio rovini la pianta, invece la pianta la tieni per anni. Una volta tutti lavoravano in stalla e tutti avevano la siepe di òpio o di […], proprio per adoperarne il legno se facevano rastrelli o quello che serviva.

- Ma lei ha visto come…

L'affettuoso ricordo di Emilio Bassi, papà di Renzo:
una splendida pagina di Ivano Tiveron su un paese perduto.
(Da Ricordi di San Floriano [di S. Biagio di Callalta], p. 69)
No, mai visto. A casa mia avevano la bottega e l’osteria.

- La sua famiglia era proprietaria dell’osteria? 

13:24 Della bottega. L’osteria l’avevamo in affitto, l’abbiamo ceduta quasi subito, l’abbiamo tenuta due-tre anni, a San Florian... il tempo di vedere le bae su per il portoncino di casa: era un casino. Quando mio papà ha preso bottega e osteria - in affitto tutte e due - la bottega guardava “a mezzanotte” e l’osteria guardava a “mattina”. Mio papà ha cambiato tutto portando la bottega davanti, “verso mezzogiorno”, e l’osteria nel retro, “verso mezzanotte”. Di conseguenza, però, i giochi delle bocce e della borella sono rimasti al loro posto. Facendo questo cambiamento (ha comprato la bottega e ceduto l’osteria) si è trovato che la cucina era davanti al gioco della borella… mentre prima era l’osteria a esserlo: ecco il motivo per cui le bae venivano su per il portoncino di casa!

14:55 - Anche i clienti che venivano a bottega, quindi, rischiavano di prendersi, qualche volta [le bae sulle gambe]…

No, perché avevano l’entrata dalla strada. Era bello davanti, c’era spazio.

- Quanto lunga era la vostra borella?

Orca miseria,  l’ho misurata a passi tante di quelle volte! Dai 22 ai 25 passi (non facevamo metri); cosa potrebbero essere stati? Sempre più di venti metri… sì, sì… può essere sì quella misura là: da 22 a 25 metri, può essere sì. Dipendeva anche dagli spazi che avevi come proprietà.

16:03 - C’era una rincorsa e dopo c’era il fermo [da cui lanciare]?

Sempre, eh sì, come minimo…

Sennò bisognava fare…

- “El boreon”.

… col batifondo lo facevi già in altra maniera, perché giocavi quasi da fermo. Però là erano solo gli esperti, sennò quasi tutti con la rincorsa. Da fermo, erano quelli bravi.

- Come si chiamava il gioco da fermo?

El batifondo.

- Perché avevo sentito dire boreon, no?

No, boreon è un’altra cosa.

- E cosa è?

16:44 El boreon è il gioco, il gioco complessivo, il casino della borella: el xe un boreon =  el xe un casìn, mentre il batifondo è un tipo di gioco: di solito si fa la sfida uno contro l’altro, in due. Invece di avere un gruppo di tre da una parte e di tre dall’altra, o quattro da una parte e quattro dall’altra, sennò due da una parte e due dall’altra … chi si credeva più bravo si sfidava a batifondo: di solito erano quattro bae secche.

Da tre a quattro bae, nel senso che non c’è la rivincita. Chi vinceva il primo [giro], vinceva la sfida, e quello era il batifondo.

- E se risultavano pari?

Non veniva mai pari, perché era un gioco a colpo unico. Giocavano le quattro bae : se uno faceva quattro sóni e l’altro giocava quattro bae e faceva pure quattro sóni te ghe davi fora [facevi spareggio] finché uno dei due sopraffaceva l’altro. Allora non erano più quattro bae, erano cinque, sei… [...]

18:10 - Sa che, comunque, a Santa Cristina, ho parlato con Lino Rossi che ha l’agriturismo…

Sì, l’ho conosciuto, al Consorzio agrario.

- Lui invece lo chiamava non batifondo, lo chiamava proprio el boreon, il gioco da fermo.

Eh, paese che vai, usanze che trovi. Io non sarei capace di tradurre el boreon —  con la mia ottica, con la mia testa — come tipo di gioco.

- Ho imparato una roba nuova, ogni paese aveva il suo [termine per indicare un determinato gioco]…

Sì, sì. Come [con le carte] andando a giocare a Jija grega… è la stessa cosa. A Quinto la giochi in una maniera, se vai a Roncade e giochi in quella maniera i te copa. Anche perché ognuno difende il suo territorio.

19:12 - Era molto frequentata a borèa de San Florian?

Eh sì, ciò!

Mi ricordo che quando mio padre aveva l’osteria, a mezzanotte, all’una era tardi [e chiudeva], ma lasciava fuori la cassetta della birra, la lasciava fuori tutta la notte, e continuavano a giocare. Lasciava accesa la luce in modo che potessero continuare a giocare. E, sa che andava di moda la grappa con la menta che la chiamavano grigioverde? Ne lasciava fuori un paio di bottiglie in modo che i ragazzi continuavano a giocare e mio padre … una volta non è che tu avessi paura che ti fregassero, erano sempre quelli, non è che fosse gente che arrivava da chissà dove.

20:14 - Era sicuro che dopo l’avrebbero pagato.

Era più sicuro che andar portare i soldi in banca. Non si poneva neanche quel problema là. Lasciava fuori la cassa di birra… e arrangiatevi, io lascio accesa la luce, e giocate fin che volete.

- I vicini che sentivano il rumore, di notte, non si arrabbiavano?

Avevamo una famiglia solo, vicino, ed erano quelli - forse - che giocavano più di tutti! Perché  l’osteria era proprio davanti al cimitero, non so se sia mai stato a San Florian...

- Non sono mai stato, sinceramente; vedo la freccia lungo la strada, ma non sono mai andato dentro al paese.

Beh, vada al Caín Orbo che è un agriturismo come quello di Rossi, e anche quello ha tante tradizioni di una volta: il Caín Orbo è proprio vicino alla chiesa di San Florian.

C’era, praticamente, el scarpèr [il calzolaio] che faceva il nonsoƚo [sagrestano], e quello era di là della strada, quasi attaccato alla mura della chiesa ... del cimitero e della chiesa, perché era tutto attaccato. [Poi c’era la] bottega e l’osteria; e che continuava con la nostra casa c’era una famiglia che aveva un pochi di campi di terra: quella era tutta la piazza di San Florian.

- Come si chiamava quella famiglia?

21:49 Bel nome: Azilla [...] e lui lavorava sull’acqua, andava a controllare l’acqua per i campi.

- Per il Consorzio di bonifica.

Sì, una cosa del genere, mi pare di ricordarmi.

- Era un appassionato giocatore di borella anche lui?

No, aveva un figlio che aveva tanta passione, Gildo, che è morto giovane, anche, poareto. Gildo aveva tanta passione per la borella.

- Si facevano anche tornei di borella? Facevano campionati provinciali come con le bocce?

Provinciali no, avvenivano sfide sempre tra persone. Però c’era ad esempio San Trovaso che organizzava un torneo di borella, ma le iscrizioni erano singole, non era come dopo - con i birilli - che veniva fuori il nome della società e questo e quello. 

23:15 Con la borella, che ricordi io, non c’erano campionati; c’erano sì queste sfide tra i paesi. Per esempio Cavaríe [Cavrie di San Biagio] aveva un bel giocatore, un certo Maƚonto… e non sta chiedermi il cognome perché lo chiamavamo Maƚonto, e non so se in mezzo ci fosse stata qualche consonante che magari l’abbiamo mangiata, perché noi siamo bravi a mangiare le parole…

- Provi a ripetere di nuovo piano…

Ma… onto, che non c’entra l’onto della tecia… Potrei anche sapere io chi era di cognome. Si ricorda di Bruno [Schiavon], l’oste della trattoria che c’era al Ponte Dante?

- Porco cane, che bravo che era…

Ecco, quello è un fenomeno, perché quello ha sempre vissuto la vita, e questo Maƚonto è da Cavaríe come lo è Bruno, che sicuramente sa il suo cognome: glielo domando io e se ha piacere posso anche ... perché Bruno sì che sa.

24:50 - A me la roba che servirebbe di più sarebbe qualche fotografia vecchia della borella.

Mia sorella mi ha rovinato tutto. Avevo le fotografie della chiesa, della piazza, della borèa, del zogo de e bae… e siccome mia sorella è milanista e io sono iuventino, e io le avevo messe via in mezzo al Vittorioso, si ricorda Il Vittorioso? Avevo tutte quelle belle cose là in mezzo al giornale Il Vittorioso, che mettevo via settimana per settimana, e… lei ha dato fuoco a tutto, perché era milanista e io iuventino!

- Ahi!

Perché erano bei ricordi. Mi ricordo quando hanno fatto la fotografia della piazza: eravamo io e mio compare Susigan, su un tavolino; tutta la piazza eravamo noi tre, e anche quella non l’ho più, perché le ha dato fuoco.

- Era una cartolina…

Le ha dato fuoco quando siamo venuti via da San Florian, nel Sessantasei.

- Quanti anni siete stati, a San Floriano?

Fino al ‘66 dal 1950: sedici anni.

- Però, siete stati parecchio.

Dal ’50 o dal ’51? Dal Cinquantuno. Perché  ho fatto in tempo ad iniziare la prima elementare a Lughignano e l’ho finita a San Floriano, sono arrivato a febbraio ed era del ‘51. [1952, cfr. sopra, libro Tiveron]

26:24 - Suo papà aveva sempre un’osteria, anche a Lughignano?

Sì, mio padre ha sempre fatto l’osto: ha cominciato a nove anni e ha sempre fatto l’osto e el casoín.

- Come si chiamava l’osteria a Lughignano, aveva un nome particolare o solo il nome di suo papà?

No, l’osteria no. La casa era di Goppion, quello del caffè, che è morto che non è tanti mesi. Era una casa singola. Era tra le due fornaci: quella di Bertoli e quella di Caberlotto, si può dire quasi in mezzo: Noi la chiamavamo  “Ae basse” , “Al paƚù”, perché quando veniva su il Sile, là eravamo tutti sotto acqua, e infatti a  mio padre non piaceva stare lì per quello, perché altrimenti si guadagnava bene a Lughignano.

27:23 Pensi che tra quelli che andavano a lavorare in fornace e quelli che venivano fuori facevamo le quattro di notte: il movimento fra quelli che entrano a lavorare la giornata e quelli che hanno finito la giornata e che vengono a casa. Ci andavano via due tre bottiglioni di grappa e mezza damigiana di vino, solo col passaggio fra chi andava e chi tornava.

- I iera schei!

Dopo mio papà tornava a letto, naturalmente, non stava mica su. Solo che c’era tanta umidità. Ogni volta che veniva su a brentàna andavi soto aqua. La caneva, le botti galleggiavano quando c’era l’acqua alta. Bisognava fare dei lavori [di sistemazione idraulica] che dopo, difatti, hanno fatto.

- Questa casa, c’è ancora?

Adesso c’è ancora casa e tutto. Naturalmente l’acqua non viene più su però hanno fatto… aspetta, c’è uno che vende scale; cosa fa, il falegname? Se lei ha occasione, da Treviso, per andare a Casale,  sulla destra, prima di arrivare in paese a Lughignano: vende scale.

28:47 - Ma anche sulla destra? L’acqua attraversava la strada?

Sì. La strada è alta ma c’erano dei tubi che [dal Sile la facevano passare] alle basse. Il gioco delle bocce e della borella era sulle basse e anche la casa era sulle basse, davanti, anche se era a tre piani: era alta per Lughignano, ma quello era uno dei tanti scarichi che aveva il Sile.

- Suo papà come si chiamava?

Bassi Emilio, 1908.

- Ha sempre fatto questo mestiere?

Sì, da nove anni.

- E a un certo punto è venuto a San Floriano. Dopo di S. Floriano dove è andato?

Basta, ha finito, ha cessato e siamo venuti a stare dove abito tuttora io.

- A Roncade?

30:03 No, Roncade è dove sono andato a lavorare, però io abito a Frescada. Ha presente dov’è il Bolognese? - che adesso non è più il Bolognese - ma tutti lo si conosceva come il Bolognese, il ristorante che c’è lungo il Terraglio, non ha presente?

- Sì.

Ecco, io abito in quella zona là. [...]

- Lì è sotto Preganziol.

Là è Frescada, Frescada di Preganziol, naturalmente.

- Con la borella, andava anche lei, alla sera, a giocare in giro... negli altri paesi?

Sì, tanto, tanto a Cavaríe.

- Avevano un bel gioco?

Sì, perché guardavi tanto l’ambiente e c’era l’osteria che ti lasciava un po’ di libertà, perché, per quanto poco, la borella è un gioco anche un po’ baruffante quando fai le sfide. 

31:38 Infatti io ho smesso a giocare quando hanno iniziato a giocare a schèi. Perché dopo è venuto di moda fare le sfide e allora mettevano sinquanta franchi [50 lire]  e arrivavi anche a sinquesento franchi par baƚa. Non puoi giocare cinquanta lire alla baƚa, sono sfide che non hanno senso. Giocati la pastasciutta che va bene, ma non i soldi! Io [ho smesso] per quello, per non giocare a soldi.

- Come sarebbe a dire “metemo sinquanta franchi a la baƚa”? Cioè, eravate due contro due...

Sempre uno contro uno. Difficile che fosse una coppia. Si poteva fare anche a coppie, ma normalmente le sfide venivano fatte uno contro uno, però potevano parteciparvi anche dieci, venti persone. I ghe dava quatro bae e i iera dusento franchi… e naturalmente li prendeva quello che vinceva.

Era troppo una sfida. Sarebbe come un batifondo, solo che invece di giocarti la birra ti giocavi i soldi … perché dopo le cinquanta giocavi anche le cinquecento lire per baƚa.

- Quando giocavate a soldi, giocavate con la rincorsa?

Sì, quasi tutti con la rincorsa; da fermo, erano in pochi che giocavano da fermo.

32:58 Sennò magari qualche veciòto  giocava la baƚa piccola e allora avevano la tendenza di mettere la gamba incrociata, e quando lanciavano la baƚa facevano un passetto e chiudevano sull’altra gamba.

Era una tecnica per l’equilibrio, erano i veciòti che lo facevano, più che altro, perché loro non volevano far la fatica di far la corsa e quindi gli era più comodo giocare da fermo, e giocavano una baƚa piccola e tanto remenàda perché non dovevano lanciarla, la giocavano larga e remenàda tanto in modo che dopo la baƚa andava su per i sóni .

- Ognuno sapeva regolarsi in base alle sue esigenze…

Eh certo. Il gioco è solo personale.

- Non aveva delle regole fisse? 

34:03 No, la regola fissa era quella che non potevi passare una certa linea che non era neanche segnata, tra l’altro. Cioè uno, non poteva finire la rincorsa davanti [ai sóni], sennò è troppo comoda. Però non che tirassi una linea e dire “ tu non devi passare quella”: veniva richiamato… magari faceva un passo di più…

- Adesso c’è un trave, ho visto, sono andato a vedere Alle Crosere di San Bartolomeo.

Per forza, perché  facevano baruffe, perché c’era sempre il furbo che invece di fare i due metri ne faceva quattro, e allora hanno fatto un po’ come sulle bocce, hanno fatto i segni in modo che se tiri al volo fin là arrivi...

- Sennò si stava sulla fiducia, sull’autodisciplina.

Ma l’autodisciplina è troppo personale, ognuno la interpreta come gli fa comodo!

35:26 - Con le 50 lire che si mettevano su ogni baƚa ...

Dipende da cosa si stabiliva: poteva essere cinquanta come poteva essere di più, manco no.

- Ad un certo punto c’era un gruppo anche di venti persone...

Il numero era aperto. Quando hanno iniziato a giocare a soldi potevano partecipare tutti quelli che volevano.

 - Bastava che mettessero la loro quota.

Sì [e dipendeva] da quante bae giocavano, perché giocavano un tanto alla baƚa; però non è che potessi essere in cinquanta sennò cominciavi e non finivi più.

- Perché ognuno aveva tre quattro bae, quante ne aveva da giocare?

36:07 Dipende da come “chiamavi”: potevi chiamare “do bae fora”, cioè giochiamo due bae, oppure “tre bae fora”. Dipende da come “si chiamava” prima di cominciare.

- Da come ci si metteva d’accordo all’inizio.

Prima di iniziare la sfida. Potevano giocare anche una baƚa solo, ma era raro che giocassero una baƚa solo. Anche perché una sola baƚa può anche fare … aspetta, cosa dicevamo quando la baƚa passava tra un són e quell’altro?… non “a fa buso”… c’era un termine… ah beh, adesso questo termine mi scappa… “a cagna”…  è brutto diventar vecchi!  Ecco: “a baƚa a ga cagnà”, vuol dire che è passata tra un són e l’altro. Dal verbo “cagnare” che non esiste, però!

A ga cagnà … è passata tra un són e quell’altro, è passata in mezzo a due sóni, senza rovesciarne nessuno dei due.

37:38 La domanda poteva essere: “Quante cagne gatu fato”? Eh, ne ho fatta una, non ne ho fatta nessuna. Cagnà … quanti anni sono che non adoperavo più queste parole!

- Vede che le è venuta la parola giusta!

Eh sì, ha fatto cagna.

- Però, quello che voglio dire: lei ha smesso di giocare perché giocavano a soldi, ma alla fine erano soldi sempre limitati, insomma; non è che si mangiassero la campagna.

Finché erano 50 lire sì… beh, la campagna no… però 500 lire alla baƚa, sai cos’erano 500 lire una volta. 

- I iera schèi.

In quegli anni là con 350 lire andavamo in bicicletta sul Montello e ti davano un bicchiere di vino, la polenta e la soppressa, con 350  lire.

38:42 Quando giocavano 500 lire erano matti.

- Era una cifra... 

Perché in una giornata, se giochi una baƚa va anche bene, ma se giochi dieci quindici bae, e perdi, cominciano ad essere cinque, sei, sette, dieci carte da mille… e diecimila lire era mezzo mese di spesa.

Una famiglia che spendeva tanto in bottega non faceva mica più di venti, venticinquemila lire al mese, ma famiglie che facevano bene! Quindi non aveva senso buttarli via così!

39:25 Pensa che nel ’66 quando mio padre ha lasciato la bottega, abbiamo fatto l’inventario; lo sai che il 70 per cento dei prezzi ancora me lo ricordo! Il formaggio, l’olio, la mortadella, carne Simmenthal, il burro, il grana: tutti quei prezzi là me li ricordo. Perché fai l’inventario e dopo fai tanti chili e tanti pezzi. Qual era il prezzo che vendi…cosa lo chiamavamo? La merce che si dava a quello che ha comprato [il negozio]. L’avviamento era una cosa; l’avviamento era in base al lavoro che facevi e che sviluppavi e dopo c’era la “giacenza”. Ecco perché facevamo l’inventario: tanti pezzi di sapone, tanti pezzi di carne Simmenthal per il prezzo di acquisto e gli mettevi in conto l'avviamento e ti pagavano anche il valore della giacenza. Non era come adesso con i contadini, che se vendi la casa, quello che c’è dentro fa parte del prezzo concordato.

40:59 - È come un computer, il suo cervello!

Adesso non mi ricordo… guardo l’ora e dopo cinque minuti non mi ricordo neanche di aver guardato l’ora.

- Beh, allora siamo in due, mi consolo! […] Ma il formaggio, a quanto era?

Avevamo tre tipi di formaggio: il fresco, pronto per essere venduto, il medio e dopo il vecchio. Naturalmente, cos’è che facevamo? “Se toeva a còta”. Sa cos’è la còta? In quegli anni là, quasi tutte le latterie erano “turnarie” ...

- Tipo cooperative?

Si chiamavano “latterie turnarie” [1]. I soci non facevano il formaggio col loro latte ma col latte che raccoglieva la latteria. Un giorno toccava a me, un giorno toccava a lui, un altro giorno toccava a un altro e tu, tanto latte hai consegnato,  tanto formaggio ti aspetta. Metti che ti aspettassero dieci venti pezze di formaggio, quella là si chiamava la “còta”. Credo che in italiano si dica quota,  ma sai che andando in dialetto cambi tutto. “Oggi tocca a me”, e mio papà si prenotava la còta.

42:51 - Dalle mie parti, c’era anche a Settecomuni, la latteria…

Penso che fosse stata turnaria anche là… perché erano quasi tutte turnarie.

- Latteria Cooperativa Settecomuni, la chiamavano… dopo non so… Ma là passava un latariol fisso, però. Uno fisso, alla mattina.

Sì, il latariol [il sig. Bassi intende il casaro, evidentemente] è fisso; infatti veniva pagato dai soci, per fare il formaggio. Anzi, era anche “in vendita”, perché oggi era a Settecomuni, ma metti che quelli di Conegliano gli offrissero di più, andava a lavorare a Conegliano. Era un libero professionista. Quasi sempre però veniva uno del paese.

- Lei è un’enciclopedia della vita di un tempo.

In questo campo sì, perché avendo bottega…

Ma quanto sono stato fuori… quanto sono stato fuori!

44:07 Questa è una battuta, per l’amor di Dio: telefonavo a casa quando andavo, non quando stavo fuori. Per dire che ero sempre fuori. Anche perché il lavoro stesso mi portava a star fuori… primo perché  ero abituato in osteria e io ero sempre fuori, ma soprattutto perché anche con il Consorzio…

- Mi ha detto Ivano che lei è stato direttore del Consorzio Agrario di Roncade.

Di Roncade, sì.

- Complimenti, un incarico importante.

Ho avuto fortuna di trovare un lavoro che mi piaceva, perché  in partenza io sarei anche abbastanza “lavativo”, sai. Però se mi piace una cosa…

- Quella è la fortuna, trovare il lavoro che ti piace.

Mi ritengo fortunato, proprio, in questo campo qua, perché mi è piaciuto fin dal primo giorno. Molto vario, sei sempre in contatto con la gente. Non posso lamentarmi, non guardavo l’orario. Era difficile che arrivassi dopo le 8, però durante il giorno andavi a berti il caffè … e dopo magari a mezzanotte ero fuori a vendere una macchina. Sono andato tanto in giro però ho anche prodotto tanto. Bisognerebbe chiedere a Zago…  Comunque, con [il direttore generale del Consorzio Agrario] Zago, si prendevano soldi, bisogna dire la verità; Zago premiava chi lavorava, era soddisfazione. Perché  avevo un bello stipendio, per me era bello, ma dopo, era quello che avevi di provvigione che ti dava soddisfazione, perché  se vendevi prendevi…

46:08 Sì, eri cointeressato su tutto. Sulle polizze FATA, perché facevi anche tante assicurazioni e se arrivavi a un “tot” di premi scattava un’aliquota. Trattori, ad esempio: devi fare 15 trattori in un anno, da quindici in su iniziavi a prendere soldi. Erano tutti incentivi, vendevi roba da “pompare” [fitofarmaci], e avanti… avevi tutti dei budget da raggiungere: se li raggiungevi, quello sarebbe stato lo stipendio, tutto quello oltre erano premi che scattavano.

- Quanti anni è stato a Roncade?

Circa venti, sì, una ventina. Dopo sono stato dieci anni a Monastier e dopo ho fatto altri dieci anni come ispettore. Ho finito la carriera come ispettore del Consorzio Agrario di Treviso e Belluno.

- Che scuole ha fatto?

Ragioneria … sbagliato scuola! Avrei dovuto fare il liceo, fare il classico, quella era la mia scuola […] però se io avessi fatto il classico mi toccava restare in collegio. Perché mi hanno messo anche in collegio.

- Perché era un po’ indisciplinato?

No, molto disciplinato, in “disciplina”, eh sì! Una roba normale a me non piace, tutti sono capaci di farla […] bisogna essere strambi.

- In che collegio l’hanno messo?

Eh, un brutto collegio.

- Cioè.

De siori. Là hanno sbagliato in pieno.

- Al Pio X?

No, più su, più su, a Possagno!

- Al Filippin?

Il Filippin era più importante, ma come disciplina era meglio il Cavanis. Il nostro si chiamava Canova dei padri Cavanis; i migliori insegnanti erano al Cavanis. Ho passato quattro anni a Possagno, con ragazzi “anca massa… “  perché  a scuola con me c’era il figlio di Zoppas, Ferdinando. Loro avevano un altro… [...]

48:45 Mio padre veniva in corriera a trovarmi e loro avevano già le auto. Non era per niente il mio ambiente, comunque ho fatto quattro anni là: quinta elementare e tre medie. Poi avrei potuto fare il ginnasio e il liceo, cioè il classico, però sarebbero stati altri cinque anni di collegio. Ecco perché  ho fatto ragioneria, perché sono venuto a casa, sennò sarei ancora in collegio!

- Ma alla fine ha trovato una bella soddisfazione lo stesso, nel lavoro e nella vita.

Sì, sono stato fortunato, per quello.

- Anche se non ha studiato greco e latino, va bene lo stesso.

No, il latino sì l’ho studiato, ancora adesso mi difendo col latino.

- Vero, alle medie si studiava il latino, una volta.

Guarda che in collegio ti toccava studiare. Sapessi tu quante volte ho saltato il pranzo di mezzogiorno quando non ero preparato! E non andavi mica a mangiare, finché non avevi imparato, non c’erano vie di mezzo. Ho imparato passi della Divina Commedia, o sennò dell’Iliade, anche l’Iliade ti facevano imparare a memoria tanti passi. Eh sì: «Cantami, o Diva, del pelide Achille l’ira funesta che infiniti addusse lutti agli Achei».

- Come ci si ricorda, e sono passati 60 e più anni!

Sono andato che avevo dieci anni in collegio, in quinta elementare, e quindi era il 1954/55.

50:41 Pensa che i preti ci portavano in passeggiata dove avevano una casa che si chiamava il Sacro Cuore e vi facevano gli esercizi spirituali, su per la montagna sopra il tempio di Possagno, e da là si andava sull’Archeson, sul Tomba. Negli anni ’50, il Tomba era ancora messo come alla fine della prima guerra mondiale, con gallerie, con ferramenta, con il filo spinato, bossoli, di tutto. E siamo andati diverse volte in passeggiata con i preti su di là. Non avevano ancora fatto… era appena finita la seconda guerra. Dopo hanno iniziato a mettere ordine, a fare pulizia; sennò era ancora tutto là.

- Adesso è tutto cambiato.

Eh sì, non mi ritroverei neanche più. Alle volte con la famiglia andavamo a fare un giro per Possagno, Fietta, quei paesi là, che si andava in passeggiata; d’altra parte sono passati sessant’anni, sessantacinque anni:

51:55 - Va bene, ascolti una cosa, sennò non raccoglie più le uova… ritorniamo un attimino solo alla borella. Mi diceva suo compare che oltre a Ma-onto, di bravo c’era anche un certo Pontel che veniva da [San Pelagio]...

Da Cavaríe

- Ciliano Pontel, mai sentito?  [...]

No, con San Paè non avevamo contatti. Da San Paè [San Pelagio] sì, poteva venire, ma non so…

- Era uno famoso, tanto è vero che hanno fatto un trofeo “Memorial Ciliano Pontel [Cervi]” di borella. Era Cervi, detto Pontel.

No, niente, alzo le mani, mi arrendo.

- Nessun problema. Qualche altro giocatore importante che le viene in mente?

Menegazzi, non chiedermi il nome, che era anche lui da Cavaríe.

- Cavaríe era proprio il centro della borella…

Perché noi ci abitavamo, su quella zona là, cioè la zona di San Florian, Mignagola, Olmi, Cavaríe. 

53:56  Perché?  C’è un perché: si girava tanto per di là perché c’erano le tose che lavoravano da Monti [a Maserada] e quelle erano frequentate dalla compagnia, perché  cosa succedeva? Una volta non stavi a “far amor” [corteggiare una ragazza, stare con la fidanzata] fino alle dieci, fino a mezzanotte. Quando erano le nove, le dieci, bisognava venir via, e allora gli appuntamenti dov’erano? In osteria! Per quello erano zone che si frequentavano di più. Perché quando eri a Varago, da Monti [filatura], dov’è che andavi? Venivi casa per Cavaríe, venivi casa al massimo per Rovarè, ma soprattutto per Cavaríe, Mignagola: quelli erano i paesi che facevamo .

Quello è il motivo per cui ci sono un sacco di ragazzi nostri che hanno sposato ragazze da Breda, da Cavaríe, da Mignagola: perché le ragazze della zona lavoravano tutte da Monti.

- Là c’era il miele.

Eh ciò! Quando sei giovane, dov’è che vai? Andavi ad aspettarle fuori, che venivano fuori da lavorare.

55:04 - Ah trovato anche lei una della zona, allora?

No, no… io ho fatto di peggio, ringraziando il Signore: da Biancade, non ho corso tanto.

- Biancade? Ho mio amico e vicino di casa, direttore didattico, che è nato in via Pantiera...

Non dirmi che era Smaniotto?

- Sì, Smaniotto, Luigino.

Più di Bepi non può essere stato, Smaniotto Giuseppe.

- Il vecchio non ricordo più come si chiamasse; … aveva due figli, uno dei quali è morto e l’altro è Luigino, che ha l’età che eravamo a scuola assieme a Ivano Tiveron, del ’47 […]

Sì ci sono gli Smaniotto in via Pantiera ma avevano 9 - 10 figli… uno era professore, Bepi, e ha un anno-due meno di me. [...]

56:37 - Va bene. Mi pare che sulla borella mi abbia detto tanto

Con Bruno [Ponte Dante] si potrebbero avere notizie, perché  lui ha un paio di anni più di me. Abita qua vicino a me, ci siamo trovati anche ieri  e ci siamo ripromessi di trovarsi con l’attenzione della "zona rossa", del [corona]virus … che si sta presto a prendersi qualcosa, e non sappiamo chi ringraziare… e gli ho detto “Bruno, meno che ci troviamo, meglio è”.

Io ho visto il suo numero [...] lo chiamo io e lo faccio parlare con Bruno … e guarda che ha più ciacola di me, Bruno!

- Volevo dirle che il numero di telefono che ha visto non è mio, perché non ho il telefonino, è quello della moglie, ma la moglie me lo passa. A me soprattutto interesserebbe avere  qualche fotografia di quelle che sono scappate dal Vittorioso. Ce ne sarà qualcuna sfuggita al rogo, la volta che sua sorella l’ha bruciato. Neanche una?

No, no… perché quella le ha dato fuoco, non le pareva vero: brusar fora tuto, milanista contro un juventino.

- Ah, siamo rovinati! [...]

58:35 Non era mica facile trovar fotografie… eh no, chi potrebbe esserci? Neanche Renzo penso che abbia fotografie.

- Susisgan no, me l’ha detto.

Erano le mie sorelle soprattutto che avevano passione per fotografare, avevamo la macchina fotografica, ma roba del paese no, ma se magari si andava in qualche parte. A loro piacevano farle. Chiederò alla Silvia, ma non credo ne abbia. Perché c’è stato una volta una signora che è venuta a stare a San Floriano  che voleva delle fotografie e gliel’ha chieste a mia sorella che mi ha detto “Renzo sai che non ho più niente”.

- Bruno del ponte Dante, di cognome, cos’è?

Schiavon, e lui è del ’41.

- Di dov’è originario?

Da Cavaríe, dopo ha abitato tanti anni a Rovarè, prima di andare a Treviso in via Roma. [...]  Ma non penso che lui giocasse a borella. [...]

- Grazie di tutto, le ho fatto perdere più di un’ora…

Eh le costa un’onbra, che non creda “de sugarsea cussì a bon marcà”!

- Quando sarà passà sto virus…

Saluti finali… 

01:01:15 fine intervista


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[1]«La latteria turnaria si differenzia dalle latterie sociali in quanto non acquista il latte ma effettua un servizio di lavorazione per conto dei soci». Cfr: https://www.fondazioneslowfood.com/it/presidi-slow-food/formaggio-di-latteria-turnaria/

 


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Conscio di Casale sul Sile (TV), 1988, durante una gara dell'antico gioco della borella, praticato in Veneto nelle province di Treviso, ...