17 febbraio 2021

Guido Piovesan, 1934

Guido Piovesan, nato a San Floriano di Callalta TV,
da ragazzino ha fatto el bureín
Intervista telefonica, lunedì 11 gennaio 2021 File 21011101 -

(Contatto procurato da Renzo Bassi)


Guido Piovesan, nato il 26 ottobre 1934 a San Floriano di San Biagio di Callalta, da ragazzino ha fatto el bureín e con i soldi racimolati a rilanciare le bocce ai giocatori, è riuscito a comprarsi un paio di scarpe da calcio, giocando poi per tre anni con gli allievi del Treviso. 

Nella vita, per oltre sessant'anni ha fatto il pittore edile, per cinque sei anni soto paron, e poi con una propria impresa, ora gestita dai suoi due figli.




Alla sera … anche perché avevo passione di giocare a pallone, ed ero senza scarpe, andando a buttare le bae mi sono comprato le scarpe da calcio.

- Qualcosa si prendeva, allora, a fare el bureín!

Oddio, ti davano. Perché quando facevano il batifondo, butafuori lo chiamavano… erano in sei-sette, a volte di meno, a volte di più. Andavano per eliminazione e restavano i due di testa, quelli che facevano più sóni.

- Lei è del ’34. In che anno ha iniziato? Non credo che durante la guerra si giocasse tanto…

Avevo dodici tredici anni.

- Appena dopo la guerra, cioè.

Durante la guerra mi pare che ci fossero altri problemi, lì… partigiani, fascisti… eravate proprio sulla zona.

C’era di tutto. Casa mia era una casa di contadini, eravamo diciassette persone, con tre stanze… e una notte, quella me la ricorderò sempre, avevamo i fascisti di sopra, sulla tèsa [locale - sopra la stalla -  per il deposito del fieno], perché volevano dormire e, sotto il barco, di dietro, avevamo i partigiani.

- Sembra uno scherzo.

Sì, uno scherzo! Abbiamo fatto tutta la notte con le nonne e la mamma in stalla, a dire rosari a catena! Se sapevano com’era ci facevano saltare anche tutta la casa.

02:11 - È andato tutto bene, comunque.

Tutto bene.

- I contadini erano quelli che ci rimettevano sempre di più …

Sì. Anche perché avevamo la ferrovia [linea Treviso-Portogruaro]; era il passaggio, là. I partigiani venivano su dalla ferrovia, perché erano del posto, e loro sapevano … e quando venivano su i fascisti, là era battaglia. C’era da star sempre con le orecchie tirate: né torto all’uno né torto all’altro, perché sennò…

- In che posto era, di preciso, casa Piovesan?

È pratico di San Floriano?

- No, purtroppo, ho solo visto il cartello stradale, agli Olmi, ma non ci sono mai andato.

Noi abitavamo alla chiesa vecchia di San Floriano, che c’era il cimitero. Più avanti di 500 metri sulla destra. Lavoravamo una campagna di cui tre campi erano di proprietà della parrocchia. Noi abitavamo nella casa del prete. Era l’unica casa su quella via, che si chiama Caín Orbo.

 - Ah, Caín Orbo, il famoso agriturismo.

Ecco, io sono nato là. È mio nipote adesso che lo conduce. Mio fratello è morto, ed era il più giovane dei fratelli; sono rimaste le sue figlie e vanno avanti loro con questo agriturismo. […]

04:21 - Facendo el bureín lei è riuscito a comprarsi le scarpette da calcio.

Sì, ogni tanto i giocatori di borella … secondo me erano generosi … ti portavano magari do tre franchi ; tutti otto o dieci che giocavano ti portavano un franco a testa. Ogni mezz’ora, tre quarti d’ora ti portavano qualche lira. O magari ti portavano una bottiglia di aranciata o un pacco di biscotti, perché là c’erano biscotti e vino dappertutto.  Mi ricordo che, più di qualche volta, mio nonno - quando aveva finito di governare la stalla - andava a messa alle sette e io poco prima facevo in tempo di andare a casa, spogliarmi e andare a letto per non far vedere di essere stato fuori fino a quell’ora! Sarebbe stata una bella tirata di orecchie…

05:25 - Già che parlavamo di scarpe di calcio, si ricorda di che marca erano?

Eh no!

- Dove le ha comprate?

Da uno che giocava a calcio in serie C. Era un certo Antonio Zambon, abitava nella nostra stessa strada e siccome loro cambiavano, gliele passavano, non so come facessero…

- Giocava in serie C col Treviso?

Ho giocato anch’io con i “ragazzi” del Treviso.

- Ma anche questo Zambon?

Zambon giocava con quelli della cartiera Burgo.

- La cartiera Burgo era in serie C?

No, no… loro erano “allievi”, di prima o seconda categoria.

- Provinciale.

Sì.

- Insomma lei le ha trovate d’occasione ed è riuscito a comprarsele.

Sì, lui ha detto “se vuoi”… così, parlando, perché abitava proprio vicino a casa mia, cinquanta metri più avanti. “Giochi e non hai le scarpe”? Se vuoi te le vendo io… vieni che ci mettiamo d’accordo”. E così mi sono comprato le scarpe.

- Qualcosa si prendeva, insomma, a fare el bureín. Ma prima, parlava di batifondo. Me l’ha spiegato un po’. [...] In cosa consisteva di preciso? Perché ad esempio a Santa Cristina, il gioco da fermo, secondo Lino Rossi dell’Agriturismo (che era un giocatore di borella anche lui) … il gioco da fermo lo chiamava el boreón.

07:31  Il batifondo non si giocava da fermo. C’era un punto di fermo, da non andare più avanti di là.

- A quanti metri dai sóni?

Dai sóni saranno stati 18-20 metri.

- Quella è la borella normale!

Sì. [...]

08:05 Quando si mettevano in sette otto dieci persone a giocare a borella - si chiamava batifondo: ossia chi perde va fuori.

- Sarebbe stato il gioco individuale, in pratica. 

Esatto.

Sennò dopo c’era la mestrina: giocavano in tre e facevano loro tre, si arrangiavano a finire la partita, quello che c’era da fare.

- Quindi, al batifondo, potevano giocare in quanti?

Quanti volevano, senza limite.

- E quante bae avevano ognuno?

Do bae a testa.

- Alla fine chi vinceva?

Dopo, con la mestrina, chi voleva si divideva i soldi, sennò…

08:54 - Parliamo del batifondo. Erano due bae a testa, potevano giocare quanti volevano… ma alla fine chi risultava vincitore?

Ogni giro che facevano, erano in dieci, giocavano tutti e dieci. Chi fa meno sóni, l’ultimo va fuori. E vanno avanti finché sono rimaste due o tre persone e decidevano loro… se c’era da giocare a soldi… facevano portare fuori biscotti, vino.

- Le ultime due persone lanciavano sempre le due bae?

Esatto.

-  E se non bastavano le due bae avranno fatto uno spareggio…

Sì, sì… uno spareggio.

- Finché uno risultava vincitore. Ma allora il batifondo potrebbe essere chiamato anche mestrina.

Anche mestrina. Solo che la mestrina erano in tre solo a giocare [ribadisce].

09:55 - Ogni paese ha il suo modo di chiamare il gioco…  

A San Floriano giocavano così, mentre se erano a San Bortolo [il vicino paese di San Bartolomeo di Breda di Piave] giocavano viceversa… avevano un sistema diverso di gioco. Adesso non lo so di preciso, perché io là sono andato solo due tre volte a vedere.

- I punti erano sempre quelli: un són, ganbarèl, sanmartin. Ma a San Giuseppe un certo Toni Busatto [...] diceva che la mestrina era la gara individuale. Quella che lei adesso ha chiamato batifondo, lui la chiamava mestrina. [...]

10:46 Alla mestrina giocavano in tre.

- Mi spieghi allora come funzionava il gioco della mestrina, in tre.

Si mettevano tutti e tre a giocare. Facevano il “giro di tre giri” a giocare… non facevano solo do bae e fora. Facevano un giro con do bae, un altro giro con do bae, e il terzo giro chi faceva più sóni vinceva. [...]

Giocavano in tre sennò veniva troppo lunga… e non volevano fare come si fa col butafondo. [Involontaria fusione di butafora e batifondo.]

11:33 - Era batifondo oppure butafora?

Butafora.

- Insomma batifondo o butafora erano i due modi di chiamare la gara individuale [senza limite di giocatori]. Invece l’altra, per farla più breve, la chiamavano mestrina

Perché...  da noialtri, anche con San Bortolo, come linguaggio era diverso, avevano un altro accento.

- Cosa ricorda di diverso a San Bortolo?

Il cavallo e il calesse condotto da Silvestro Piovesan, nonno di Guido,
fungevano a volte anche da "Croce Rossa", nel senso che 
trasportavano  i malati del paese all'ospedale di Treviso.
Nella foto, ripresa davanti alla chiesa, negli anni '30,
la signora in primo piano è la maestra di San Florian.

A San Bortolo erano persone che per la maggior parte avevano vivai di piante.

Mi ricordo che andavo con mio nonno al mercato a Treviso e a volte si incontravano

questi ragazzi che avevano quindici sedici anni, diciassette - non erano di più - e portavano questo fascio di piante. Gli chiedevamo: “Dove vatu ti, ciò” “Eh, vao al mercà anca mi” “De dove situ?”Da San Bortoƚo”. Al ritorno, quando avevano venduto le piante gli chiedevamo: “Da dove situ ti?” “Da San Bórtol, ciò!”

- All’andata erano da San Bortoƚo e al ritorno da San Bórtol.

13:06 - A proposito di fascine e di legni, con cosa erano fatte queste bae?

De legno.

- Sì, di legno senz’altro…

Erano di diverse misure. Ce n’erano di quelli [che avevano una] baƚa che sarà stata quasi come un pallone da calcio, da quanto grossa era. La prendevano proprio sul braccio, loro. Con la mano la tenevano sul gomito e giocavano con quello; ma buttavano giù! e facevano la maggior parte…   erano quelli che vincevano quasi sempre perché facevano tanti punti, facevano anche sanmartin tante volte. Se  facevano tre sóni lo chiamavano sanmartin …invece a volte prendevano il primo e il secondo són e basta  e lo chiamavano ganbarèl.

- Che legno fosse, di preciso, non lo sa. Cos’era, olmo, ópio, cos’era?

13:58 Orca, questo non lo so. Un legno di sicuro… Non tanto duro, perché ricordo che anche le ultime bae che erano rimaste là [dopo che l’osteria si era trasferita] e si giocava noi ragazzi, si rompevano, si aprivano. Diventavano secche, quindi non era un legno… sì, abbastanza pesante. Penso siano state di olmo, de róro [di rovere], o una roba del genere.

- Ho sentito tanti dire che erano di ópio…

[...]

15:07 Fine.


***


Seconda parte, mercoledì 13 gennaio 2021, file 21011301

 

- Eravamo arrivati che, con i soldi da bureín, aveva comprato le scarpette da calcio, e che ha giocato con gli allievi del Treviso. Chi era l’allenatore, all’epoca? Quante stagioni ha giocato?

Era un giocatore di cognome Pantaleoni e suo papà era medico di condotta qua a San Biasio.

- Per quello aveva trovato il posto  nella squadra a Treviso?

Eh no… è stato tutto un procedimento di uno scherzo. Io sono sempre stato appassionato, ho sempre s-baƚonà qua a casa con i fioi, con i ragazzi che giocavano a calcio. Mi piaceva andare a vedere le partite a Treviso. C’erano le pioppe “in testa” al campo sportivo e andavamo su per le pioppe perché non avevamo soldi per entrare. Ogni tanto venivano i vigili e ci mandavano giù… ma insomma… Alle volte, quando erano a tre quarti della partita, ci chiamavano dentro lo stadio. Finita la partita ci dicevano: “ha voi siete entrati senza pagare”! Ci presentavano tutte le scarpe sporche di fango dei giocatori, e ci mettevano a lavare le scarpe… e con quella dopo abbiamo iniziato a s-baƚonàr anche noi. Ho fatto tre anni in seconda categoria.

- In che ruolo era?

Ero portiere.

- Quindi ha una bella statura.

Un metro e 74.

- Ci voleva “scatto”, per fare il portiere.

Sì, e dopo ho fatto il portiere anche quando ho fatto la naja.

02:53 - Invece, come mestiere, cosa ha fatto?   

Ho lavorato solo 62 anni a fare il pittore: 56 per conto mio e sei anni li ho fatti soto paron. Pittore edile, case, condomini: avevo nove ragazzi come dipendenti.

E ho ancora due figli che vanno avanti con l’impresa, ma loro hanno solo due dipendenti, do tosati; parché non convien tor su tosati, parché voja de lavorar no i ghe ne gà… e se li assumi, intanto non sanno niente e li paghi come fosse uno che sono venti anni che lavora.

- Dovrebbero essere apprendisti e avere una paga da apprendisti.

No caro… non è così. Una volta assunti li devi tenere minimo minimo sei mesi. E dopo quando li fai lavorare - è toccato anche a me quando ero in pensione - ti toccava andar portarli alla mattina alle otto e andar prenderli a mezzogiorno e dopo portarli all’una e mezzo e riprenderli alle cinque di sera. Perché è un mestiere che si fa fatica. Adesso meno, ma una volta era tanto più sporco... parché un mestieracio, el xe.

- Anche per la respirazione. Avevate delle buone maschere…

No, no; eh sì, una volta non c’erano maschere, no! Quando si pitturavano radiatori a smalto, per una settimana ti soffiavi e buttavi fuori smalto.

- È stato fortunato [con i polmoni…]

Mischiare la calce con le mani [nude]. Alla sera andavi a  casa …, olio e limone prima di andare a letto e andare a letto con i guanti sennò ti graffiavi tutte le mani.

05:03 Eh, abbiamo fatto le nostre battaglie.

- Veramente! Perché se mi dice che eravate senza protezioni.

Ma anche lo stesso, perché, mi ricordo che ho fatto... Di fronte all’istituto Brandolini a Oderzo, c’è un condominio… uno dei primi lavori grossi che ho fatto io: ho dato l’idrorepellente ai muri che erano rivestiti in cotto e, con quei soldi ho fatto le fondamenta della mia casa. Ma deve pensare che … alto cinque piani, con un trabatèl  [trabatello: ponteggio mobile, piccola impalcatura]… quindi io ero sugli ultimi tre piani, perché non mandavo su i ragazzi, avevo paura che gli succedesse qualcosa, ma io quando ero sopra specialmente sul penultimo e ultimo piano, non occorreva che usassi le mani per spennellare su per il muro, bastava che intingessi il pennello e lo tenessi fermo. Col “giramento” che faceva el carèl, pitturavo!

Ringrazio il Signore perché mi è sempre, sempre andata dritta.

- Può dirlo, proprio.

06:16 Mi è successo un fatto… non so, deve essere stato qualcheduno che ha messo le mani [...] . Ho fatto un capannone alto 5-6 metri, che c’era anche il mio consuocero - erano due soci, loro - e stavo pitturando il soffitto con aria compressa e pistola. Per terra si copriva con dei naili [dei teli di plastica], e ogni tanto c’era un pozzetto per tirar fuori i fili della corrente; in quel caso ci mettevamo sopra un pannello di legno. È venuto un muratore e ha tirato via il pannello. Mio figlio, che da giù tirava avanti el tarabatel, non se n’è accorto, e sono caduto da 5 metri di altezza. Son cascato in piedi! Sono stato fermo là, ho bevuto due tre bicchieri di acqua, ho aspettato un po’, poi sono risalito sul carèl  e avanti! Mi si è un po’ insaccata la schiena, ma insomma…

- Da cinque metri.

Da cinque metri di altezza, io e el tarabatel e tutto!

- Ed è rimasto in piedi!

In piedi. Ho avuto la prontezza di mettermi appena fuori del pianale … quando stavo per cascare, sono saltato fuori e sono cascato in piedi, e  c’era il cemento, per terra.

- La schiena non ha avuto problemi?

No, niente. Per due tre giorni un fià de mal de schina, ma … monàe. Perché io con i dolori sono abbastanza “appassionato”, mi piacciono tanto, sono la mia vita, quelli là.

- I dolori.

08:04 Eh, i dolori sono tremendi, in queste giornate qua.

- Se avuto quella caduta là, i dolori li risente anche a distanza di anni. 

Sì. Dopo sono andato avanti cinque sei anni, sette… e ogni tanto dovevo stare a casa due tre giorni a letto per via del mal di schiena. E dopo all’ospedale di Treviso hanno detto che volevano operarmi la schiena perché avevo le vertebre schiacciate. «No, no. Alla schiena no non metto mano, ho detto; mi dispiace». 

Perché ho mio fratello più vecchio, che è stato operato due volte alla schiena, adesso cammina che assomiglia a ‘na masanéta [1], tutto storto e ancora col suo mal di schiena.

- A volte quegli interventi non sono risolutivi.

Dopo l’ho trovata io una soluzione. Perché facevo delle terapie. Andavo a Monastier in casa di cura e vedevo che a un mio amico che abita qua vicino e aveva anche lui male di schiena, lo mettevano disteso con un tavolaccio sotto la schiena, di 40-50 cm, e lo mettevano in trazione per “staccargli” le vertebre, perché aveva anche lui le vertebre schiacciate. 

E ho pensato, a casa, “provo a fare qualcosa”. Prima faccio un attrezzo e poi parlo col dottore. Gli spiego che ho fatto questo tavolaccio e poi con le carrucole mi tiravo su con la schiena… mi appendevo con i piedi, e la testa per basso. L’ho fatto in graduazione, perché mi ha detto il dottore «lo fai sei sette volte … poi sempre più, ma non star tanto più di dieci - quindici minuti con la testa per basso».

10:15 Con quel l’attrezzo là, avrò fatto l’esercizio una ventina di volte, trenta anche; due mesi ho fatto quel lavoro là, lo facevo due tre volte alla settimana, e non ho più avuto mal di schiena. Ma all’inizio sentivo le vertebre, quando ero appeso, che sembrava che si staccassero.

- Ci credo!

Mi è sempre andata bene anche là.

- Complimenti per lo spirito d’iniziativa che ha avuto.  Sono costretto a interromperla, perché ogni vita sarebbe un romanzo da raccontare...

Per me sì, perché  me ne sono successe di tutti i colori.

- Purtroppo devo concentrarmi sulla mia piccola ricerca… Ricapitolando, mi spieghi nuovamente il funzionamento di batifondo, butafora e mestrina.

11:32 Il batifondo vuol dire giocare quattro, otto - dieci persone, dipende da chi voleva giocare. Mettevano su do tre franchi o sinque franchi a testa e poi giocavano due bocce ciascuno,  fino all’ultimo giro[…].

Quando avevano fatto il giro, i due che avevano buttato giù meno sóni venivano eliminati, finché restavano in due che facevano la finale.

12:38 Dopo invece, alla mestrina, giocavano testa a testa.

- Come funzionava questo testa a testa?

I due che magari vincevano al batifondo dicevano “facciamo testa a testa io e te” e allora mettevano magari altri sinque franchi o diese franchi a testa dipende da cosa uno aveva in tasca. E chi vinceva si teneva i soldi.

Volevo dire che dove mettevano i birilli non era piano ma erano messi su un “colmo” alto 20-25 centimetri in modo che la boccia batteva per terra e saltava su per i birilli.

- Era in terra battuta questo “tondo”?

13:37 Andavano a prenderla sul Piave: una specie di creta doveva essere stata. Dovevano farlo due tre volte all’anno, perché giocavano spesso. Facevano una buca e si portavano via abbastanza terra e ogni tanto andavano a prenderla o la preparavano a casa, facevano un giro magari con un camioncino  con i cavalli o non so cosa. Era una specie di creta, perché dopo hanno fatto anche i giochi delle bocce, a fianco, e hanno messo tutta questa creta, e veniva abbastanza dura, lasciava poco segno per terra.

- Dove andavano a prenderla, a Saletto?

Non lo so, o a San Bortolo o a Saletto, la zona dove c’era la cava, giù di là.

- Lei mi diceva che tante volte giocavano anche tutta la notte: era durante la sagra?

14:40 Di sicuro fino alle quattro cinque di mattina era “ordinario”. Venivano a casa da lavorare, andavano a cena, erano contadini o cosa, e là si presentavano, si mettevano d’accordo e iniziavano a giocare. E dopo facevano anche gare; c’era rivalità, campanilismo con gli altri paesi e allora si incontravano lo stesso.

- Ma al sabato e alla domenica, perché negli altri giorni c’era anche da lavorare!

Con le gare sì, al sabato e alla domenica, sennò per il resto era raro che ci fosse stata una sera che non giocavano a borella.

- Erano ragazzi giovani, sui 20-25 anni?

Un fià de tuto. Anche roba di trenta quarant’anni, cinquanta.

- Era proprio una passione.

Sì sì, era una mania, non so neanch’io. Ha durato parecchi anni e dopo e andata a smussarsi, a smussarsi, sempre di più. [...] 

14:49 Per noi qua, una volta, era solo quello il divertimento, per gli uomini. Non c’era niente altro. Dopo hanno fatto i giochi delle bocce, dopo sette otto anni hanno fatto il gioco delle bocce, sennò prima c’era solo la borella.

- Prima la borella era l’unico gioco…

16:05 Sì, e ce n’era una per paese. Mi ricordo che - all’inizio quando ho cominciato, c’erano le scuole dietro la borella, là agli Olmi - e c’erano due cacciatori…. non so come si chiamassero. Uno era soldato, e in quegli anni là aveva il distributore di benzina AQUILA . C’era lui e un certo Buosi che faceva il commerciante di suini, che erano cacciatori. Alla sera quando venivano a casa, o al pomeriggio… per un po’ stavano là a guardare e dopo si mettevano loro e tiravano ai sóni con el s-ciòpo, il fucile!

- Ma che discorsi sono, con el s-ciòpo?

17:08 Eh sì, erano bravure che facevano, un po’ alterati… E i “rìpari” [ripàri] che c’erano, perché dietro i sóni e anche ai lati c’erano dei ripari in legno, erano tutti tamisài, pareva che fossero cariolài [bucherellati] dalle tarme.

- Per “rìpari” cosa intende? Dietro la borella c’era un riparo di legno…

Sì, e anche alto, sui tre metri; c’erano tutti quei “ripari” di legno che venivano dalla ferrovia.

- Ah, le traversine!

Traversine.

- Che termine in dialetto ha usato?

“Vipari”, noi li chiamavamo vipari, quelli della ferrovia.

- Vipari, V come Vicenza.

Sì… Vicenza… Viberi….

18:16 - Viberi, mai sentito! E allora Vicenza, Imola … la terza parola?

B + E  come Empoli, R come Roma e I… Non B, ma P - la terza parola…

- Vìperi, come vipere… il maschile di vipere, insomma!

Esatto.

19:02 - La prima volta che sento questa parola!  Come cambiano i dialetti!

Sì, anche noi qua, a San Bortolo hanno tutto un altro patuà, un altro accento.

- Lei faceva el boreín e quando giocavano queste persone di sera, stava su anche lei?

No. Io se era, era al sabato e alla domenica, sennò qualche volta anche durante la settimana, ma durante la settimana andavo poco perché avevamo sette campi di terra, e con i nonni, prima di andare a scuola bisognava andar fare un giro col falsin [con la falce fienaia] a tagliare la spagna, l’erba medica.

- Quindi non aveva tanto tempo da perdere, alla sera.

No.

Me poro papà che andava a tor su el late... Lui con quattro bussolotti appesi al manubrio della bicicletta andava prima a San Martino e poi a Spercenigo [due frazioni di San Biagio di Callalta].

- Andava a prendere il latte. E a chi lo portava?

In latteria.

20:16 - Dov’era la latteria?

Una a Spercenigo e una a San Martino.

- Erano le famose latterie turnarie?

No. Erano privati, soci.

- Tipo latteria sociale.

Si latteria sociale, e tutti vi portavano il latte. Avevo un fratello che ha lavorato per anni alla latteria di Spercenigo.

- Bisognava che ci fosse anche uno che sapesse fare il formaggio.

Eh sì, c’era un casaro; il nostro veniva dalla montagna. Non mi ricordo il cognome, ma era montanaro. Ma in gamba faceva un formaggio, che veramente… Dopo lui è andato in pensione e per due tre anni non erano più capaci di trovare un casaro che lavorasse bene e gli è toccato andare nella latteria di San Martino.

- Quante robe si vengono a sapere! Ma… restando sempre alla borella, c’era qualche giocatore più famoso degli altri?

21:28 Sì, era Enrico Sponchiado. Era lui che aveva la boccia più grossa di tutti.

- Da dove veniva?

Qua, da San Floriano. Lavorava appena giù della chiesa andando fuori sulla Postumia.

- E cosa faceva?

Ha lavorato un tot per la Meneghetti [2] a Treviso, sulla distilleria che faceva grappa. Dopo invece si è levato e faceva il manovale.

- Sponchiado aveva la baƚa più grossa di tutti.

Una baƚa che se non era grossa come un pallone era appena un po’ meno. Ma, oh, la portava fin sotto i sóni, non so quanta forza avesse!

- Era sua personale, o era dell’osteria?

No, era dell’osteria. In osteria c’era un cassone in cui ce ne saranno state una ventina di bocce, dentro, e tutti andavano a prendersi quella che pareva loro di poter adoperare.

- Enrico Sponchiado si prendeva la più grossa, e via! […] Aveva un soprannome?

No.

- Qualche altro giocatore che lei si ricorda?

Sì, ce n’erano, ma adesso non mi ricordo il cognome, perché la famiglia è andata via.

- Susigan mi parlava di un certo Maƚonto, che veniva da Cavarìe.

Sì, non era dagli Olmi, veniva da Cavarìe; la chiamavamo Maƚonto, ma era un soprannome.

- Non è che sappia il suo cognome?

No.

- Ma era davvero bravo?

Tante volte giocavano testa a testa, lui e Sponchiado.

- Renzo Bassi mi diceva che lui ha giocato alla borella, perché gli piaceva tanto,  più delle bocce, perché  si sfogava…

Suo papà aveva il casoín, là.

24:55 - Però ha smesso di giocare perché ad un certo punto hanno cominciato a giocare a schèi. Sopra ogni baƚa mettevano cinquanta lire… e lui ha detto “e no, non vale più la pena”, perché a un certo punto andavano su col conto…

Altroché!

- Come funzionava questo gioco allora, che non ho ben capito. In che senso mettevano un schèo ad ogni baƚa?

Cosa facevano? Volevano fare una sfida magari in due? Si mettevano d’accordo. Sono due, tre cinque o dieci franchi, o venti franchi. Quello che vince si tiene i venti franchi.

- Quindi, continuando, continuando… venivano fuori soldi.

Sì, c’erano alle volte che si perdevano anche cinquanta lire.

- Qualcuno ha anche perso dei bei soldi?

No, quelli che giocavano con soldi così, da noi, facevano una o due partite, al massimo. Anche perché non c’erano i soldi che ci sono adesso. Mettevano un franco, due, magari cinquanta centesimi, una colombina [3]

- Giocavano sempre una cifra accettabile, non che si mangiassero la campagna, per dire.

Eh no! Anche perché  di solito il gioco a soldi avveniva quando era finito quello normale e si battevano testa a testa, sennò durante tutta la gara che facevano portavano fuori bibite, vino, biscotti.

- Mettevano fuori una cassa di birra, oppure gazosa o il “grigioverde”, mi diceva Bassi…

- Ultima cosa, e poi lo lascio [...] chi faceva i sóni e le bae

Questo non so dirglielo. Anche perché, ricordo che quando quelli da Olmi tiravano con gli schioppi,  hanno dovuto cambiare i sóni due tre volte, perché  si scheggiavano.

- Che legno era, secondo lei?

Non so dirglielo. Secondo me erano di olmo, siccome ero contadino anch’io fino a quindici anni… quando andavo a far sièsa [potare le siepi] c’era qualche bel pezzo di olmo, che è abbastanza duro.

28:08 - Non di ópio?    

Anche ópio, ma l’ópio ha tanti groppi.

- Per quello, avendo più groppi, era più difficile che si rompesse…

No, perché  dove c’è un groppo e poco dopo un altro groppo, si scavezza quando prende la botta della baƚa.

- Non è che ricordi qualche artigiano che avesse il tornio e facesse i sóni e le bae

No, non saprei dirglielo.

- E in casa, i contadini, c’era nessuno che se li faceva?

Mi ricordo che le prime volte che andavo, i sóni erano fatti da un contadino, dicevano i giocatori - però non lo so di preciso - ed erano messi là da parte e fatti neanche con un legno tanto diritto. Erano messi là in piedi, fatta la punta, e basta, non erano fatti bene.


29:18 Ringraziamenti…  nuovo accenno al suo lavoro di pittore senza tante protezioni… non con le impalcature di adesso.

30:53 Accenno al Covid… Piovesan racconta che lo teme, sia lui che la moglie, perché  l’anno scorso ha preso una polmonite doppia e si è fatto sei giorni e mezzo con la febbre a 41,5° e non riuscivano a buttarla giù, perché non sapevano che virus fosse. Non era il Covid, perché era a Pasqua del 2019, ma gli ha lasciato i polmoni segnati. [...]

32:31 Fine.

 



[1] Femmina del granchio lagunare (Carcinus moenas ) al momento dell’ovulazione - Emanuele Bellò, Dizionario del dialetto trevigiano di destra Piave]

[2] Distilleria Agricola Trevigiana di Ettore Meneghetti, via Vittorio Veneto 23 - Cfr. Guida Industriale e Commerciale, Milano, ediz. 1937/38, p. 466 - Google Books

[3] La colombina, così chiamata per l’aquilotto che vi era riprodotto nel rovescio,  era una moneta del Regno d’Italia da 5 lire d’argento, in uso fino alla proclamazione della Repubblica, nel 1946.


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Conscio di Casale sul Sile (TV), 1988, durante una gara dell'antico gioco della borella, praticato in Veneto nelle province di Treviso, ...